In tasca ai soliti noti
Missione: rintracciare miliardi di dollari. Ma
ci trattano da aggressori. E ci tolgono il caviale
Un ispettore del Fmi ha scritto per "L'E-spresso",
sotto pseudonimo, un resoconto della sua ultima missione a Mosca,
dopo la scoperta dell'inquietante intreccio tra il potere
politico-mafioso russo e alcune banche internazionali.
Ogni volta che torno da Mosca, gli amici mi chiedono se lavoro
ancora per il Fondo monetario o se sto per assumere qualche
posizione di vertice in un gruppo petrolifero controllato dalla
mafia russa. Questa domanda, unita al fatto che per la mia
famiglia io sono un "ispettore", una sorta di tenente
Colombo che ha fatto la London School of Economics, prova che l'immagine
della Russia e del Fmi non sono al momento molto buone.
Innanzitutto, io e i miei compagni di missione siamo tutti
economisti sui 30-40 anni. È vero che facciamo tante domande, ma
di solito interroghiamo superburocrati dei ministeri finanziari o
tecnici delle banche centrali per come va l'economia di una
nazione. Insomma, non faccio l'ispettore. Detta così è forse
meno eccitante, ma se la missione è in un posto come Mosca c'è
di che annoiarsi.
Dal '96, vado regolarmente a Mosca, alla quale abbiamo concesso
prestiti per quasi 20 miliardi di dollari negli ultimi sette anni.
E se il Fmi perde la faccia in Russia (ad esempio, si scopre che
i soldi che prestiamo sono stati rubati), sarà difficile che
governi come quello americano paghino ancora le quote associative.
L'ultima missione inizia il 18 agosto e sembra cosa tranquilla.
Dobbiamo raccogliere un po' di dati aggiornati e negoziare una
nuova tranche da soli 640 milioni di dollari, che però i russi
non vedranno mai perché va a coprire interessi sul debito con lo
stesso Fmi. Parto con tre colleghi europei, un africano e un
asiatico. Il nostro capo canadese, Gérard Belager, farà su e giù
tra Washington e Mosca. Nella capitale russa troviamo i nostri
quattro colleghi che spiano da lì l'economia locale. Due di
questi hanno già la moglie russa, e un po' mi stupisco. Per una
decina di giorni tutto fila come al solito. La vera novità è
che per la prima volta ci hanno messo al Marriott e non al
Metropole. Siamo sempre vicini alla Piazza Rossa, ma questo è l'unico
albergo di lusso dove nella hall non girano "professioniste".
Un particolare che il collega africano nota subito e che io
riferisco a mia moglie, sempre in vena di battute sulle mie gite
a Mosca.
La nostra giornata-tipo è quella di un funzionario di banca. Si
comincia alle 9 e si finisce alle 18, dal lunedì al venerdì. Se
proprio insistiamo con la controparte, si lavora anche qualche
sabato mattina. Gli incontri si svolgono nei grigi palazzoni
della banca centrale russa o del ministero delle finanze. Se ci
passi un po' di ore, capisci perché la Russia ha uno dei tassi
di suicidi più alti del mondo. La cosa che più mi colpisce
quando tratto con i russi è che ogni volta che faccio una
domanda imprevista mi oppongono con aria grave il «segreto di
Stato». E vero che lì ne hanno parecchi di segreti, ma se
chiedo l'ultimo dato sulla produzione agricola e mi rispondono
che è un segreto di Stato, penso o che non vogliono collaborare
o che si vogliono dare delle arie. Io propendo ormai per la
seconda ipotesi: l'Urss non c'è più, ma la testa dei burocrati
è sempre quella. Non fanno niente, ma sembra che siano costretti
all'inattività da imprescindibili ragioni nazionali.
Nel corso degli incontri tecnici, i dirigenti russi cercano di
convincerci, dati alla mano, che alla fine del '99 l'economia
russa nonavrà quel forte arretramento che si temeva ad agosto
del '98, quando vi fu la crisi del rublo. Noi partivamo da un'ultima
stima di Pil in calo del 7 per cento nel '99 e alla fine ci
convinciamo che l'economia dovrebbe perdere non più di due punti
sul '98. Per il 2000 decidiamo di non azzardare stime.
Quando esplode lo scandalo del riciclaggio di 15 miliardi di
dollari destinati alla Russia e lavati alla Bank of New York,
anche quel po' di rapporto umano che avevamo creato con tanta
fatica sembra svanire. Alla banca di Russia, guidata da quel
Victor Geraschenko che è l'unico governatore del mondo che non
sa leggere un diagramma, allargano le braccia e danno la colpa a
«quelli del governo». «Quelli del governo» dicono che fino al
'96, anno al quale si riferiscono le indagini di Londra e New
York, il governo russo era in mano a una banda di ladri, guidata
a Anatoli Ciubais (padre delle privatizzazioni) che ora, però,
non ci sono più.
Poi viene fuori la storia dei conti svizzeri di Eltsin e dei suoi
familiari. I nostri interlocutori si ricompattano subito: dicono
in coro che siamo di fronte a una nuova aggressione occidentale
alla Russia. L'aspetto beffardo è che pure noi finiamo per
essere coinvolti nel «complotto mondiale». Man mano che Michael
Camdessus, il nostro immarcescibile direttore che parla l'inglese
come l'ispettore Clouseau, viene attaccato da "Le Monde"
e dai settimanali francesi per le vicende russe, da Washington
chiamano per chiederci di scrivere le lettere di risposta. Così,
di giorno mi tocca trattare con burocrati dalla faccia di cemento
e di notte devo preparare le argomentazioni che Camdessus sfoggerà
con la stampa del suo paese, che è l'unica che sembra
interessargli. Intanto, Belager comincia a farsi vedere più
spesso e, a turno, ci toccano le cene con i pezzi grossi russi:
viceministri, governatore, vicegovernatore, direttori della Banca
centrale.
Ogni tanto appare pure l'ex rappresentante speciale di Mosca
presso il Fondo, Zadornov. È stranamente silenzioso. Poi capiamo
perché, quando leggiamo che negli Usa indagano su sua moglie. Lo
scandalo riporta al centro degli incontri bilateriali il tema
della trasparenza delle finanze russe. In sostanza, al Fondo non
piace che in Russia non si riesca mai a capire quale ministero
stanzia una somma, quale amministrazione la riceva e per fare che
cosa. Con una decisione insolita, e che col senno di poi
malediciamo, nel '98 versammo un milione di dollari direttamente
al ministero del Bilancio, anziché alla banca centrale. Oggi il
Fmi non è in grado di dire con esattezza dove siano finiti quei
soldi e il 9 settembre lo ha ammesso pubblicamente anche Stanley
Fischer, vicedirettore del Fondo. Nella nostra ultima missione,
abbiamo tentato invano di capire se quel milione di dollari è
stato stornato alla Difesa, una destinazione non contemplata nel
piano di risanamento negoziato a Washington.
Dovevamo tornare tutti il 30 agosto, ma la missione è ormai
diventata una vera ispezione. Quando scopro che le due dirigenti
della Bank of New York sospese per il riciclaggio sono russe,
sposate con pezzi grossi di qui, rabbrividisco un poco. Comincio
a guardare con sospetto pure le mogli russe dei nostri colleghi
stanziali, ma poi mi dico che non siamo in quei film in cui ci si
scambiano i microfilm su un ponte della ferrovia e la donna che
ti si butta addosso te l'ha spedita il Kgb.
Un paio di scene da film ci capitano lo stesso. La prima è il
ricevimento che ci offrono una sera. Per la prima volta in tanti
anni ci invitano a un banchetto ufficiale. Lo dico a mia moglie,
che mi pronostica un bel party tra fiumi di caviale, champagne e
hostess. Si rivela invece una triste festicciola nella dacia del
ministero delle Finanze, molto grigia e molto sovietica. Niente
donne e niente caviale: ormai gli stiamo proprio antipatici.
Seconda scena alla partenza, slittata al 4 settembre, per «vederci
più chiaro». Stranamente, all'entrata in Russia, nessuno ci
aveva fatto dichiarare la valuta estera. Ma all'aeroporto, prima
di tornare in America, ecco che spuntano i moduli. Funziona così:
se dichiari 100 dollari in entrata e 102 in uscita, ti fanno
cambiare i due dollari in più per fermare la fuga di capitali e
stroncare il cambio nero. Alcuni turisti spiegano che all'andata
non avevano dato loro alcun modulo, ma alla dogana sono severi:
presumono che tutti siano entrati senza valuta estera e adesso o
si cambia tutto in rubli o non si parte. Meno male che a pochi
metri vi sono cambiavalute abusivi in abbondanza.
Il ricordo più bello di questa missione resterà la visita
guidata al Cremlino. Dobbiamo ammettere che il finanziere
albanese Pacolli, che forse ha ristrutturato le sale con i soldi
del Fondo, ha fatto proprio un bel lavoretto.